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La pressione fiscale alle stelle deprime i consumi. Ma è davvero così?

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La Banca d’Italia rende note le stime sulla pressione fiscale: netta crescita del carico delle imposte. Ma il crollo dei consumi è davvero una conseguenza diretta?

Fonte. Oltremedia

Pressione fiscale al 44%, con tasso effettivo (ottenuto dallo scorporo del sommerso) al 52,9%. Sono questi i dati che laBanca d’Italia ha diffuso venerdì scorso e che palesano il netto aumento dell’incisione del carico fiscale sul Pil nazionale. E’ il risultato di politiche rigoriste che oramai da diversi anni stringono i bilanci pubblici degli Stati producendo un nettissimo aumento delle imposte e un taglio strutturale della spesa pubblica, particolarmente accentuato nel settore sociale. In particolare, l’Italia si posiziona al quarto posto nella Ue per livello di carico fiscale (superata da Belgio, Francia e Austria). Se si considerano, in primo luogo inoltre il braccio di ferro in corso tra i diversi interessi nazionali nell’eurozona, da un lato quelli dei paesi del Nord Europa a trazione tedesca, da un lato da tutto l’articolato insieme di stati oppressi dll’austerity degli ultimi anni ed in secondo l’ostinazione con cui organismi internazionali come il Fondo Monetariomarcano le posizioni d’intransigente rigorismo (da ultimo con il monito rivolto proprio all’Italia al fine di dissuadere il Governo Letta dalla revisione dell’Imu), sembra molto difficile che una riduzione della pressione fiscale sia prospettabile in tempi prossimi.

Ma c’è un altro indice molto significativo che la Banca d’Italia ha diffuso nel suo rapporto: si tratta della percentuale d’incidenza della tassazione sugli utili delle piccole e medie imprese: questa corrisponde precisamente al 68,3%. L’enfasi con cui i governanti, “tecnici” o “politici” che siano, pongono in risalto la peculiarità di un economia produttiva italiana formata da una rete atomica di piccoli apparati e imprese di micro-dimensioni, ha portato molti commentatori a lanciare un allarme su questo specifico dato. In effetti per un’economia nazionale che ha registrato da inizio anno quasi 8 mila fallimenti questo carico enorme sulle spalle dei piccoli produttori non è certo un segnale di conforto.

Alcuni analisti, però, partendo da questo dato muovono ulteriori passi: a loro avviso, il gran carico fiscale sulle imprese produrrebbe direttamente una riduzione dei consumi, anche primari. E’ fuori discussione che da diversi anni oramai si assiste ad un tendenziale e incessante crollo del potere d’acquisto dei redditi, con una traiettoria parallela alle innumerabili crisi e chiusure aziendali. Ma esiste davvero questo legame di causa-effetto tra tassazione delle Pmi e riduzione dei consumi? Qualche dubbio in effetti potrebbe essere sollevato se si pensa che negli Usa del secondo dopoguerra vigeva una tassazione molto alta sul singolo prodotto marginale e questo non ha impedito una espansione della produzione da un lato e del mercato americano dall’altro. Inoltre, se si assume proprio il carattere “microscopico” degli apparati aziendali e quindi degli occupati per ciascun insediamento, questo sillogismo appare ancor più discutibile. Allora dove bisognerebbe guardare per districare questa che appare sempre più una matassa ingarbugliata per l’assunzione indiscussa nei dibattiti politico-economici e che assume sempre più la forma di un luogo comune?

Si potrebbe anzitutto provare a ribaltare la prospettiva provando a invertire i rapporti di cause ed effetti. E’ assai più proficuo provare a considerare l’abbattimento del potere d’acquisto dei redditi, prodotto anche (ma non solo) dalla tassazione generale come la base fragile che poi ha fatto crollare l’intero sistema produttivo nazionale e internazionale. Non c’è dubbio che compressione salariale avente un ventennio di retroterra, il taglio della spesa pubblica divenuto oramai sistematico e avente effetti immediati sia sul salario indiretto che su quello differito, con l’inasprirsi della tassazione generale siano sicuramente all’origine del logoramento del potere di consumo dei singoli e che questo abbia poi determinato l’evolversi sempre più rapidamente della crisi. Si badi bene che questo processo non parte dagli ultimi anni, nemmeno dai famosi e sempre citati “primi anni Novanta”: l’inizio di questo che è un vero e proprio tendenziale impoverimento di massa ha origini a cavallo tra metà anni Settanta e anni Ottanta con la fine del modello di sviluppo keynesiano e la vittoria della linea reagan-teatcheriana ed ha soprattutto dimensioni internazionali.

Provando dunque ad assumere questo ragionamento come base di partenza non sarebbe più opportuno provare a cambiare la ricette che un pensiero economico stanco e stantio ripete oramai come un disco rotto? Non si dovrebbe partire daldotare i redditi di un nuovo potenziale di consumo attraverso la spesa pubblica sostenendo questo intervento con una lotta senza frontiere all’evasione fiscale che costituisce una peculiarità nazionale tanto quanto l’atomistica composizione della produzione?

Presupposto, ancora una volta, è provare a ridiscutere le fondamenta stesse dei dogmi creatisi in questi anni di crisi: sapranno i loro padri uccidere le proprie creature?

 Francesco Valerio Della Croce

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